parole

Parole perfette per ogni momento sbagliato

domenica 25 marzo 2012

Mientras duermes


Scrivo solo perché non posso vederti dormire.

È la prima notte dell'anno che mi costringe a lasciare la finestra spalancata, per stendere via le ossessioni quotidiane, per lavarmi il viso con il vento del nord, il Cierzo, che viene dal mare e ti ricorda che non sei nessuno, per cercare qualche stella sbiadita nella patina di grigio dietro i cornicioni dei palazzi della Gran Vía, costruiti con mattoni tenuti insieme dalla banalità delle case del centro, tutte così ugualmente infelici. Il lampeggiare ritmico dei semafori gialli fa da contrappeso all'incedere malfermo e singhiozzante del mio sguardo, che non viene dagli occhi, che non viene dal corpo, ma che ugualmente soffre i limiti fisici di lontananze intollerabili, spazi ingestibili, tempi inventati. Prendo la rincorsa con ogni boccata di fumo, mi consumo con la carta della sigaretta, che si spegne lasciando soltanto l'odore di cenere e pensieri bruciati come ogni notte, così dannatamente sola, così rumorosa, così infida nella sua velleità travestita da sentimentalismo, così crudele da rimettermi te in petto ogni volta che provo a strapparti via, per guardarti come se avessi un'esistenza fuori da me.
Ma mi sbaglio, mi sbaglio sempre. Passo le giornate a costruire sensi obbligatori per le emozioni che mi martellano dentro, argini di finte sicurezze che vengono immancabilmente distrutte al primo apparire della Luna. Conosco la maree come le curve delle tue labbra. So che non resta più niente di soltanto mio quando cala il sole. So che appartenerci è la parola che più si avvicina, ma so che è quella che meno si fa comprendere. Perché il possesso è per chi riesce ancora a spacciarsi per due entità distinte.
Quando tutto si spegne, finalmente capisco:

Non sono me stesso più di quanto non lo sia tu.

giovedì 22 marzo 2012

Come le Pleiadi.

Nell'attesa ti conosco così bene.
È che non sono pronto ad arrendermi ai domani che diventano oggi. Non posso dire addio allo ieri che conosco così bene, che mi cullava quando le tue parole non c'erano, mentre le mie erano soltanto gli scarti di un'esistenza che non avevo. Ti vestivi quotidianamente di possibilità, riscattavi le mie giornate vuote con tutti i sorrisi che non mi rivolgevi, eri l'incedere altero del rifiuto con gli occhi strappati a una stella polare. Ti cercavo solo quando non mi volevi, ti volevo quando mi rifiutavi, mi rifiutavi quando avevo bisogno di te. Vivevamo come le rette parallele, uguali, senza mai incontrarci. Ero inamovibile nel precario equilibrio sull'orlo della disperazione, "che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia".
Avevamo lo stesso sguardo delle promesse che non si possono mantenere.
Ma io non mi accontento mai di ciò che è perfetto. Ti ho presa per mano e ti ho sussurrato il piacere dell'incertezza che ti divora le giornate, delle corse sfrenate per anticipare i desideri prima che si impossessino di te, ti ho mostrato le occhiaie che avevano le mie ambizioni dopo averti conosciuta in migliaia di incubi. Ti ho raccontato di come il caffè avesse un profumo diverso la mattina dei giorni in cui ti avrei rivista, e di come vedere la luce accesa da una finestra di notte mi avrebbe per sempre fatto pensare a qualcuno che stava sognando di essere uno di noi due. E tu mi hai creduto. Io lo sapevo, ci avrei giurato il falso. Hai capito che avrei preferito essere una pagina purché le tue dita ci scivolassero sopra, che il vento poteva suonarci canzoni agli angoli delle strade al prezzo di pochi baci, che potevi anche non dormire, perché la realtà era meglio di qualsiasi sogno potessi fare.
Mi hai creduto, e non te lo perdonerò mai. Perché posso sopportare tutto, ma non la dannata felicità di passare insieme tutto il tempo che ci è concesso.

domenica 18 marzo 2012

Solo perché non ci sarai più.

Non è mai stata una tua dote, capire.
Ti ho vista bagnare le dita in quell'assurda quotidianità di specchi deformati che costituivano le tue percezioni, così vere, così meschinamente vere, costruire certezze con lo spago annodato, e vedertici impiccare uno per uno quelli che ti chiedevano il perché del susseguirsi delle lune. Non hai mai accettato un giorno senza ridipingerlo dell'attrazione che esercitava su di te l'incompiuta, confusa vaghezza dei sensi vietati. Ti ho vista correre in prati di filo spinato come fossero margherite, fermarti a giocare con i copertoni rotti della nostra vita insieme, dormire, sognare la realtà che vivevi da sveglia non credendo che fosse, dovesse essere meglio. Non è l'amore che rinnego, non è la tua anima così infantile – che teme niente come una bambina, che ama immensamente come una bambina – non sono tutte le ore che ho passato a guardarti, desiderando di esserti vicino agli occhi come un ricordo. È solo l'immenso oceano che separa il tuo capire dal mio sentire, un oceano che non è fatto di incomprensioni, di magnifiche possibilità dell'esistenza, ma è un oceano di sabbie mobili, in cui poco a poco ti vedo sprofondare, ferma, con lo sguardo pieno della certezza di chi sa di essere altrove.

giovedì 15 marzo 2012

Eri la terra


Sono settimane che ti vedo travestita da mille metafore, nelle nostre giornate inconcluse di discussioni inconcludenti, nelle ansie dell'incertezza, nell'eccitazione dell'incertezza, in quei gesti incisi sulle solite pareti panna che imprigionano le emozioni, nelle luci artificiali dei tuoi occhi che fanno da contorno al solito mal di testa che mi viene quando guardo la rettitudine fatiscente con cui mi lacrimi addosso i tuoi forse, io, così dannatamente incosciente dell'arrendevolezza che la mia bocca non può arginare, che le mie dita non possono trattenere, di quell'irrequietezza che ti scorre addosso fino a bagnarti le caviglie mentre corri in giri di parole, fino ad annegare i terremoti che tieni intrappolati fra le costole, fino a leccarti tutte le ferite, per ricordare con la lingua il sapore amaro di chi ti ama senza nulla in cambio.
Ricalibro la mira per colpirti dritta nelle paure, nel momento in cui chiudi gli occhi mentre ti coglie il sonno. Non c'è spazio per me sulla tua pelle, non ci sarà mai. Nei tuoi polsi scorre l'odore del sangue bruciato dagli amori incompiuti. Segui le linee che hai tatuate addosso soltanto per tenerti occupata tutta la vita a non andare da nessuna parte.

Sparisci, annullati. Persino la terra trema, perché non puoi farlo anche tu.

martedì 13 marzo 2012

Inutili gli orologi.

Ricordo che da piccolo mi perdevo nelle trame dei tappeti.
Li trovavo affascinantissimi. Mi sembravano dei mondi immensi che noi giganti guardavamo dall'alto, come dagli aerei, e i piccoli rombi diventavano enormi case, scuole, le linee autostrade, nelle intersezioni vedevo i semafori, e immaginavo la gente di questa terra scura come tanti bambini esattamente come me, distinti da me per l'ignoranza di essere gli abitanti di un tappeto di casa - che diventava un portale per concepire l'altro, quell'uguale nel diverso senza il quale neanche il concetto di "altro" è possibile. E non mi sfiorava neanche l'idea che sarei potuto essere lo stesso per qualcos'altro, un abitante di un tappeto fissato e immaginato con ostinazione da una mente fervida. Non lo immaginavo, perché i bambini non lo fanno. I bambini non conoscono cosa voglia dire esercitare il potere, per cui creano realtà fittizie in cui sono loro i sovrani - reduci del delirio di onnipotenza, dell'essere centro di attenzione magnetico dei pensieri circostanti -  mentre conoscono l'autorità, e nessun tipo di autorità è concepibile superiore a quella della mamma, e ancor più del papà. Non potevano essere anche loro dei giochi di qualcuno, era un controsenso. E non un controsenso logico, perché alla logica ci si sbatte contro. Era, semplicemente, inconcepibile.
Forse è questa la sensazione che cerco ancora adesso, adesso che l'ho perduta. Questo inconcepibile che non funziona da limite, che non è ostacolo, non ci fai a patti, non lo sfidi quotidianamente per vedere dove puoi andare. Un inconcepibile che sia una certezza dell'essere, del sentire, mutevole come l'essere e il sentire stessi, fino a che i confini di te diventano una danza eterea tra il conosciuto, lo sconosciuto e il baratro invisibile di ciò che in quel momento non potrai conoscere mai. Forse cerco questo tipo di semplicità, che adesso mi pare un miracolo tanto la sento complessa da raggiungere. Forse è davvero un altro, il modo in cui vorrei toccare e sentire le cose, impossessarmene con il corpo, ingoiarne l'essenza e non fotografarla, assorbirla e non riprodurla, dissetarmici, non accarezzarla.
O forse ad inizio settimana dovrei bere un po' di meno.
Ma oggi, va bene così.

lunedì 12 marzo 2012

Dopo le 02:00

Non mi stancherò mai di aspettare che sia troppo tardi.


Le mattine acquistano un senso solo se smettono di averlo le notti prima.
Mi sveglio e dimentico te, la cosa che più ci univa - i desideri incompiuti -, inizio a realizzare cose, mettere insieme prove tangibili della mia esistenza. La fisicità dei gesti che ti spengono a poco, toccare le cose, spegnerti ancora fino ad essere solo corpo, corpo che fa, che sente, che non pensa, oggetto fra gli oggetti, oggetto degli oggetti. Routine che sono morfina. La moderata apatia, la bassa reattività agli stimoli - tu -, l'isolamento bagnato, mentre i sensi ottenebrati si inseguono fino a serrare fuori con violenza qualsivoglia ricerca, desiderio, qualcosa che aneli al fuori, all'altro - tu .
Poi arriva la notte, notte di cui sei regina.
Notte che i pensieri li prende per mano lungo le nostalgie, finché non dimentico ogni giorno, finché non sbatto addosso alle grida delle contraddizioni, finché non sono costretto a bere il sangue amaro che la presenza della tua assenza fa fermentare all'altezza dei ricordi. Lì ti riconosco, e so che sei causa e fine. Che sono la stessa cosa. Si inseguono e confondono intrappolando in gabbie chi cerca consolazione nell'ordine delle cose. Come trovare un ordine, quando persino il tempo è solo l'ennesimo strumento con cui tu ti prendi gioco di me? Io, io che mi illudo di cercarti, quando tu hai sempre saputo - zitta, sorridente - che ero semplicemente guidato dalla mano che non mi ero accorto di stringere.
La tua mano così forte, la mia mano così infantile.