Scrivo solo perché non posso vederti
dormire.
È la prima notte dell'anno che mi
costringe a lasciare la finestra spalancata, per stendere via le
ossessioni quotidiane, per lavarmi il viso con il vento del nord, il
Cierzo, che viene dal mare e ti ricorda che non sei nessuno, per
cercare qualche stella sbiadita nella patina di grigio dietro i
cornicioni dei palazzi della Gran Vía, costruiti con mattoni tenuti
insieme dalla banalità delle case del centro, tutte così ugualmente
infelici. Il lampeggiare ritmico dei semafori gialli fa da
contrappeso all'incedere malfermo e singhiozzante del mio sguardo,
che non viene dagli occhi, che non viene dal corpo, ma che ugualmente
soffre i limiti fisici di lontananze intollerabili, spazi
ingestibili, tempi inventati. Prendo la rincorsa con ogni boccata di
fumo, mi consumo con la carta della sigaretta, che si spegne
lasciando soltanto l'odore di cenere e pensieri bruciati come ogni
notte, così dannatamente sola, così rumorosa, così infida nella
sua velleità travestita da sentimentalismo, così crudele da
rimettermi te in petto ogni volta che provo a strapparti via, per
guardarti come se avessi un'esistenza fuori da me.
Ma mi sbaglio, mi sbaglio sempre. Passo
le giornate a costruire sensi obbligatori per le emozioni che mi
martellano dentro, argini di finte sicurezze che vengono
immancabilmente distrutte al primo apparire della Luna. Conosco la
maree come le curve delle tue labbra. So che non resta più niente di
soltanto mio quando cala il sole. So che appartenerci è la parola
che più si avvicina, ma so che è quella che meno si fa comprendere.
Perché il possesso è per chi riesce ancora a spacciarsi per due
entità distinte.
Quando tutto si spegne, finalmente
capisco:
Non sono me stesso più di quanto non
lo sia tu.